lunedì, Marzo 31, 2025

VINCENT VAN GOGH: IL PITTORE DELL’ANIMA INQUIETA

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C’è chi dipinge per mestiere, chi per tecnica, chi per inseguire il successo. E poi c’è Vincent van Gogh. Uno che non dipingeva tanto per, ma perché ne aveva bisogno. Come l’aria. Come un’urgenza. Come se ogni tela fosse un grido, una preghiera, un modo per dare forma al caos che aveva dentro.

Oggi comincio così una rassegna personale, emozionale, dei pittori che più mi parlano. Non da critico, né da storico. Ma da uomo. Da artista a modo mio, da romantico cronico. E Vincent, per me, non può che essere il primo.

Nato nel 1853 nei Paesi Bassi, Vincent van Gogh è stato tutto tranne che un artista compreso nel suo tempo. Poco venduto, spesso deriso, considerato instabile e pericoloso, ha attraversato la vita come un’anima in tempesta. Tra lettere accorate al fratello Theo, fallimenti esistenziali, ricoveri psichiatrici e dipinti realizzati a ritmo febbrile, van Gogh ha lasciato al mondo più di 900 quadri e oltre 1.000 disegni in meno di dieci anni.

La sua era una pittura “in levare”, come il jazz. Andava all’essenza, con la forza delle emozioni più pure. Usava i colori come parole urlate, le linee come segni di un’emotività tagliente, senza filtri.

Tutti conoscono I Girasoli. Ma pochi sanno che per van Gogh rappresentavano qualcosa di più di un semplice fiore: erano il simbolo della luce, della lealtà, dell’amicizia. Li dipinse per accogliere l’amico Gauguin nella famosa “casa gialla” di Arles, con la speranza di creare una comunità di artisti. Ma quell’amicizia finì male. Come molte cose nella sua vita.

E poi La Notte Stellata, che ha ispirato canzoni, poesie, generazioni di artisti e anime sognanti. Quella notte non è un cielo, è un vortice. È la mente di Vincent: viva, turbolenta, visionaria. Un cielo che non ti lascia mai in pace, ma che ti abbraccia mentre ti perdi.

Il Campo di grano con corvi, uno degli ultimi dipinti prima della sua morte, è un urlo silenzioso. I corvi non sono solo uccelli: sono presagi, sono pensieri neri, sono la fine che incombe.

Van Gogh è stato un uomo che ha amato con intensità e spesso senza reciprocità. Ha cercato un posto nel mondo, ma ha finito per trovarlo solo nelle sue tele. La sua vita è una lezione sull’importanza di restare fedeli a se stessi, anche se tutto il resto va in direzione opposta. È la storia di un’esistenza che non ha avuto paura di mostrare la fragilità, la solitudine, l’amore disperato per la bellezza.

Anche quel famoso gesto dell’orecchio tagliato non è una stranezza da cronaca: è un simbolo potente, tragico, dell’incapacità di essere ascoltato, compreso, accolto. Era il suo modo — estremo, radicale — di gridare al mondo: “Io esisto, io sento troppo”.

Van Gogh morì nel 1890, a soli 37 anni, sparandosi un colpo di pistola in un campo. Morì povero, sconosciuto. Ma oggi è considerato uno dei più grandi pittori di sempre. Le sue opere valgono milioni, ma soprattutto valgono lacrime, riflessioni, emozioni. Perché in fondo non ha solo dipinto paesaggi o volti: ha dipinto l’animo umano, nella sua verità più cruda.

Io, quando penso a Vincent, penso a tutti quelli che non riescono a stare nel mondo così com’è, ma che provano a renderlo un po’ più sopportabile con un colore, una parola, una melodia, un sogno.

Van Gogh era uno di noi. Di quelli che si perdono e si ritrovano tra le sfumature di una tela, di quelli che trasformano la sofferenza in arte, e l’arte in rifugio.

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