C’è una frase nel film che rimane addosso più di ogni battaglia, più dei mostri e dei portali: “L’ho fatta grossa. Sono diventato adulto.” La pronuncia Steve, il protagonista di Minecraft – Il film, e in quel momento tutto si fa chiaro. Questa non è solo una storia su cubi, esplosioni e costruzioni. È una storia su chi, crescendo, ha smesso di credere nei propri rifugi. E poi, un giorno, ha deciso di tornarci.
Il film, ispirato al celebre videogioco Mojang, mescola con delicatezza il racconto fantastico e quello umano. Parte dagli anni ’80, quando Steve – un ragazzino timido, sognatore, forse un po’ solo – prova a intrufolarsi in una miniera senza successo ma da adulto, la sua vita piatta gli da la forza di superare il vecchio minatore e riesce a esaudire il suo sogno. All’interno della miniera scopre due oggetti magici: l’Orb della Dominanza e il Cristallo della Terra. Da lì entra nell’Overworld, un universo dove ogni cosa può essere creata. E lì rimane, costruendo il suo piccolo paradiso fatto di legno, lupi e silenzio. Un posto dove non serve essere brillanti, forti o popolari. Serve solo immaginare.
Passano gli anni. Steve è sparito. Ma nel presente, tra bollette non pagate, videogiochi in saldo e sogni messi da parte, entra in scena Garrett, ex campione di tornei arcade, oggi uomo stanco che si atteggia a duro ma non convince nemmeno se stesso. È lui a ritrovare quegli oggetti, insieme a Henry, un ragazzino introverso appena arrivato in città con la sorella Natalie, dopo aver perso la madre.
Il portale si riapre. I mondi si toccano di nuovo. Ed è lì che il film trova il suo cuore. Non nell’epica, ma nella tenerezza. In quel lupo chiamato Dennis, in una casa costruita insieme, nel silenzio della notte che solo chi è stato ragazzo incompreso conosce davvero. In chi trova un senso costruendo quando tutto il resto sembra sgretolarsi.
Certo, c’è un nemico: Malgosha, regina del Nether, ci sono le battaglie con i Golem di Ferro, i piglin, i creeper e tutto l’universo Minecraft portato in vita con effetti spettacolari. Ma quello che rimane, dopo i titoli di coda, è altro.
È quel senso di appartenenza silenziosa. Quel messaggio che arriva piano ma potente: non devi brillare per essere importante, non devi gridare per esistere. A volte basta costruire un rifugio, aspettare l’alba e credere che, da qualche parte, ci sia ancora un pezzo del bambino che sei stato.
È per chi ha paura di non bastare, per chi si è nascosto, per chi ancora oggi, ogni tanto, sogna di aprire un portale e scappare.