C’è un modo diverso di raccontare la propria terra. Non con l’urgenza di difenderla, né con la rabbia di chi ne sente il peso. Ma con la dolcezza stanca di chi ha camminato a lungo, lontano, e adesso torna. E riconosce tutto. Anche le spine. Anche le ombre. FURÈSTA, il nuovo disco de LA NIÑA, è questo: un ritorno a sé.
Carola Moccia, che è LA NIÑA, classe 1991, non canta Napoli come la raccontano in TV. Non le interessa piacere, né rappresentare. Canta i margini. Canta la campagna, quella da cui tutto è partito. Canta le donne, la terra, gli animali, la voce degli anziani. Canta il silenzio che viene prima della musica.
Insieme a Alfredo Maddaluno, l’altra metà di questo progetto, ha costruito un album che sembra nato da un sogno e da un lutto, insieme.
La prima traccia, GUAPPARIA, si apre con una voce vera: quella di Zia Viola, novant’anni, che canta in un documentario. È lei ad aprire il portone di questo viaggio. Dentro ci trovi tamburi che sanno di pelle e vento, chitarre che non cercano l’accordo perfetto ma l’eco della memoria, voci che non si fanno belle ma si fanno vive.
C’è persino il fruscio dei capelli di Carola sui tamburi. C’è il suono degli zoccoli dei cavalli, registrati nel ritmo del trotto. Ci sono madri e figlie, c’è la rabbia, c’è la vergogna, c’è la gioia che esplode quando non riesci più a trattenerla.
Ogni brano è una stanza. Alcune sono buie, come MAMMAMÀ, che parla di una storia violenta. Altre sono luminose e leggere, come PICA PICA, che racconta il volo delle gazze nel giardino di casa. Tutto ha un senso, anche se non viene spiegato.
E allora ti fermi. Respiri. E capisci che FURÈSTA è una parola che non vuole essere addomesticata. È selvatica, sì. Ma anche libera. E tenera. E vera.
È un disco da ascoltare in silenzio, magari con gli occhi chiusi. Perché FURÈSTA non ha bisogno di spiegazioni. Ha bisogno solo di tempo. Di attenzione. Di cuore.